Skip to main content

INFERNO - I TRENTAQUATTRO CANTI

INFERNO - I TRENTAQUATTRO CANTI

INTERPRETI

Antonia Bertagnon, Luca Brinchi, Marco Cantori, Franco Cecchetto, Salvo Lo Presti, Elena Manfredi, Veronica Mulotti, Fiorella Tommasini, Roberta Zanardo canto Sara Bino

VOCE REGISTRATA IN MALEBOLGE

Giacomo D’Alelio

CONSULENZA ALLA SCELTE DEI TESTI POETICI

Marco Munaro

RIPRESE E TECNICO VIDEO

Alberto Gambato

DRAMMATURGIA, MUSICA E REGIA

Massimo Munaro

 

PRIMA RAPPRESENTAZIONE:

Rovigo, Spazio Lemming, 1 giugno 2004

a Roberto Domeneghetti
"io non morì e non rimasi vivo"

Nell’arco dei due anni e oltre di lavoro, continuo e forsennato, che hanno condotto alla composizione di quest’Opera, il progetto su Inferno ha conosciuto, fatalmente, diverse messe a fuoco progressive. Inizialmente il lavoro avrebbe dovuto configurarsi in quattro parti separate e successive. Tale divisione era suggerita dalla stessa analisi della struttura Dantesca: ad ogni parte avrebbe corrisposto una diversa dislocazione spaziale e una diversa fruizione da parte degli spettatori. Di fatto una anno fa presentammo separatamente, e poi anche in una unica serata, le prime due parti di questo progetto ancora allo stato di abbozzo. Ci accorgemmo subito che un lavoro su una parte, come è inevitabile, non poteva darsi definitivo prima della composizione finale. Nell’inverno dello scorso anno abbiamo così riformulato le prime due sezioni in un unico sviluppo drammaturgico (fino a diciassette) e ora, finalmente, nella loro completezza.
L'idea centrale che ha mosso il nostro lavoro è stata, in tutta la sua presunzione, di raccogliere l'impossibile sfida dantesca. Nella struttura del grande poema sono infatti elaborati e fusi insieme tre sistemi: quello fisico, quello etico e quello storico-politico. Dottrina e fantasia, storia e mito, si intrecciano nella sua struttura in un quadro difficilmente districabile: il poema finisce per rappresentare in definitiva una summa spaventosa del sapere umano condensato all'inizio del 1300, e spinge alla necessità ardente ed impossibile di proporre la medesima summa al sorgere di questo nascente nuovo secolo.
Come l'Iliade ai tragici antichi l'Inferno dantesco si presenta oggi a noi come un insieme di miti di cui qui si offre una possibile libera variazione. Il nostro lavoro drammaturgico si è da subito aperto alla poesia – anche grazie all'invito rivolto a trentaquattro poeti italiani a rileggere e a commentare da noi a Rovigo i canti danteschi - e, per la prima volta nella nostra storia, anche alla musica - ma direi anche alla filosofia, all'arte, alla psicologia, alla sociologia – del novecento: quasi a denotare quel carattere riassuntivo ed enciclopedico che è proprio della Commedia. Al centro della nostra reinvenzione è infatti, più che la parola dantesca, la struttura stessa della Cantica con i suoi trentaquattro Canti. L'oscura complessità del lavoro è qualcosa, comunque, che resta immanente al progetto, qualcosa che deve nascondersi sotto al velame de li versi strani. In Dante infatti la ragione e la chiarezza strutturale è qualcosa che emerge e si palesa soltanto mano a mano che se ne approfondisce la lettura. A tutta prima ogni canto, con i suoi episodi separati, sembra poter avere vita propria, come in uno stralunato varietà. Solo col tempo si fortifica quella certezza di unità che sembrava garantita dalla terza rima e che pare invece scivolare via proprio nell' iterazione infinita. Ogni verso, così come ogni canto, è una perla che abbacina e che non fa vedere la collana. Come in Dante anche qui la struttura ama nascondersi. Essa è ciò che sostiene e che permette il Canto, ma per questo è necessario che essa non sia immediatamente riconoscibile.
Crediamo che la funzione del teatro, oggi più che mai, sia quella di permettere allo spettatore di compiere delle esperienze individuali e collettive profonde e radicali. Tanto queste esperienza emotive saranno forti tanto esse condurranno lo spettatore (poi) a realizzare un'esperienza cognitiva importante. In altre parole soltanto ciò che ci interroga profondamente, in modo anche a noi stessi inesplicabile, può condurci ad una rielaborazione intellettuale significativa e trasformatrice. L'Inferno di Dante è un luogo archetipico. Esso non è soltanto il luogo ove dimorano i morti – l'Ade dei greci – ma anche lo spazio in cui i viventi vedono riflessi i propri mali individuali e collettivi. Se da un punto di vista psichico l'Inferno, come è per il teatro, suggerisce così uno sprofondamento dell'anima nel regno dei morti, del sogno e dell'inconscio - cioè in un luogo senza tempo - da un punto di vista etico esso ci riporta, invece, a domande basilari sul nostro tempo, sul regno del presente. Per noi l'Inferno si costituisce come un regno psicologico di adesso, non come un regno escatologico di poi. Non è un remoto luogo di giudizio sulle nostre azioni, ma costituisce il luogo per giudicare ora le nostre azioni entro una riflessione interiore.

Sentiamo la denotazione sfacciatamente politica di questo lavoro – nell'epoca del disimpegno generalizzato – come un movimento necessario e squisitamente dantesco: in questo nostro tentativo di confondere l'alto col basso, il mito alla cronaca, c'è l'incessante necessità di fare assurgere alla cronaca, finalmente, la dignità di mito. Immaginare di entrare da vivi nel regno di Ade, come pure fece Dante, significa necessariamente per noi spettatori trovarsi costretti a un faccia a faccia con i demoni, trovarsi dentro questo spazio e provare ad attraversarlo. Ma l'Inferno non è lo spazio diurno che ci è possibile attraversare a tappe, di stanza in stanza o di grado in grado, quanto piuttosto esso si manifesta come spazio eminentemente metamorfico. In altre parole, rispetto alla concezione Tolemaica-Dantesca, siamo, ovviamente, oggi più inclini a immaginare l'universo come pluriverso in costante movimento e trasformazione. Di stanza in stanza, di grado in grado, è il medesimo spazio a trasformarsi davanti a noi e a costringerci a continue diverse visioni, a nuovi attraversamenti. Il cubo nero che ospita l'evento, inizialmente totalmente vuoto, si accumula progressivamente di una quantità straordinaria di oggetti, di materie in continuo sfaldamento. I corpi dei dannati si fanno sempre più degradati, raccapriccianti. La materia si disfa.
A differenza di altri nostri precedenti lavori, qui non c'è più nessuna accoglienza: il teatro non si fa più ventre materno. Siamo in Inferno. E infero è questo spazio nemico, inferi sono questi attori/dannati - dove Virgilio è assente o si manifesta impotente proprio in questa relazione invisibile - inferi sono, per lo più, i rapporti fra gli stessi spettatori, spesso per lo più reciprocamente d'intralcio. L'Inferno sono gli altri (Sartre). Ci troviamo così ad essere testimoni partecipi di uno sprofondamento demonico che ciascuno vive proiettato fuori di sé, ma che in realtà mima, come per Dante, l'infinita costellazione della propria anima individuale e collettiva. Non si tratta, naturalmente, di aggiungere orrore all'orrore, com'è consuetudine di troppo teatro in Italia, ma al contrario dell'affacciarsi all'unica possibile via d'uscita. Il movimento Dantesco suggerisce, infatti, che solo inabissandosi è possibile salire nell'alto, solo cadendo ci si potrà alzare: solo la ferita Risana. La discesa agli Inferi è infatti viaggio verso la luce.

 

I primi sette canti mettono a tema l'incontinenza, e cioè quella zona inconscia e pulsionale che a volte esplode senza controllo e che ci domina. La fruizione degli spettatori – dopo un inizio che ci vede gettati in un'oscurità inquietante e totale - si fa frontale: siamo invitati imperiosamente a sederci, a guardare ed ascoltare. Nei successivi dieci Canti (Dentro Di Te) – eretici/comunisti e violenti - lo spazio dell'azione si allarga e ci ingloba, siamo via via costretti ad alzarci e a seguire a fatica azioni sempre più feroci: il nostro stare si fa sempre più incerto e pericoloso. Gli spettatori seguono l'andamento in piedi o sedendosi a terra. Solo in un momento essi saranno fisicamente coinvolti: nel girone dei violenti contro il prossimo alcuni spettatori saranno chiamati ad aiutare gli aguzzini-attori a punire-annegare i dannati-attori. Ma anche qui l'azione dello spettatore è libera: la sua partecipazione è circoscritta alla sua responsabilità. Nelle Malebolge, i tredici canti della fraudolenza, lo spazio si metamorfizza completamente – siamo inglobati e invitati a sedere su un quadrato di letti e ci troviamo completamente circondati. L'azione degli attori viene moltiplicata, sottratta, frantumata dalle mille immagini che si susseguono ovunque.
"E senza dubbio il nostro tempo preferisce l'immagine alla cosa, la copia all'originale, la rappresentazione alla realtà" (Feurbach). Viene così realizzato un fitto gioco di rimandi fra i corpi reali degli attori e le loro immagini/simulacro, fra immagini riprese in diretta e immagini, fraudolentemente, pre-registrate, dove in gioco è posto anche il nostro corpo-immagine di spettatori. La malattia del mondo è qui legata alla distorsione del pensiero, alla logica invertita di questa epoca della tecnica che ci relega tutti, sempre più, ad una condizione di spettatori voyeur impotenti. Ne Gli ultimi quattro canti lo sguardo si rivolge progressivamente all'interno del quadrato. Il male estremo – come per Dante – si rivela essere, in questo buco fra i letti, l'unica possibilità di uscita e trasformazione. Finalmente i miei occhi incrociano, pericolosamente, quelli degli attori e degli altri spettatori. E in ultimo commiato, finalmente umano, la voce si piega al canto.
Rispetto al lavoro condotto con la Tetralogia si tratta per noi di riformulare un coinvolgimento, che lì era pensato per il singolo spettatore partecipante, mentre qui è rivolto al corpo di una piccola collettività – se pur necessariamente ristretta a trentaquattro spettatori. All'Inferno si entra soli ma si esce appunto – com'era nelle intenzioni di Dante - comunità. La scommessa per noi ora è quella di ripensare il Teatro come luogo di un rito collettivo.

Questo nostro lavoro, infine, è dedicato a Roberto. Non solo perché questo progetto – come sempre – è stato discusso fra noi fino alle ultime ore della sua vita, fra mille parole, mille paure, mille entusiasmi; non solo perché senza di lui – senza il suo esempio, il suo sostegno, il suo lavoro, le sue idee – questo progetto probabilmente non sarebbe nemmeno mai stato immaginato; ma anche nella speranza che fra le tante feroci immagini di cui si nutre quest'opera, si nasconda fra le sue pieghe e in qualche modo riverberi il sorriso del suo Volto.